Stato occidentale e globalizzazione

Data inizio
1 gennaio 2013
Durata (mesi) 
48
Dipartimenti
Culture e Civiltà
Responsabili (o referenti locali)
Tedoldi Leonida

Negli ultimi decenni, il dibattito sullo Stato è stato spesso indirizzato quasi esclusivamente verso la constatazione di una crisi irreversibile della statualità nella globalizzazione. Oggi, nel pieno dei mutamenti contraddittori delle democrazie, per dirla con Marc Lazar, in cui gli Stati europei risultano incapaci di rispondere in maniera efficace alle sfide poste in essere dalla complessità dei problemi, imposti dalla crisi economica, i caratteri di questo supposto processo di «destatalizzazione» appaiono però segnati da un profondo ripensamento; anzi, sebbene la globalizzazione possa mettere in discussione i fondamenti anche del costituzionalismo occidentale, non necessariamente questa possibile evidenza è destinata a portare alla fine dello Stato, o meglio del suo nucleo duro.

A questo poi si aggiunge il processo di avvicinamento tra i due poli antagonisti, delle imprese e dello Stato, ormai consolidatosi durante la crisi economica, che ha determinato un rinsaldamento di quello State Capitalism analizzato con efficacia dall’Economist di qualche mese fa. Comunque, l’idea stessa della crisi, del superamento dell’esperienza statuale e «del suo narrarsi oltre la fine» - che ha tenuto banco per gran parte delle ultime decadi del Novecento - è ormai logora e dimostra di non essere più in grado di colmare il ritardo delle analisi storiche e politologiche sullo sviluppo e sul distendersi complesso della cosiddetta era globale; inoltre il venir meno di un certo «fondamentalismo antistatale» - presente nella politologia - ha forse consentito la ripresa del confronto sul ruolo dello Stato e della statualità.

Già negli anni novanta, nel dibattito anglosassone, si mostrava come fosse fuorviante contrapporre in qualche modo lo Stato alla globalizzazione, sostenendo che non solo quest’ultima non avrebbe smantellato definitivamente il suo ruolo, ma che piuttosto essa tendeva a includere le “forme della trasformazione” dello Stato, anche perché non aveva (e non ha) prodotto actors più efficaci degli Stati.

Del resto la visione di un mondo con un unico mercato in cui dominano incontrastate le corporations transnazionali è stata più volte contraddetta dalla forza sempre più rilevante delle istituzioni nazionali nella regolazione del commercio e del trasporto dei prodotti; e su questo la riflessione della sinistra riformista italiana, ma anche europea, dovrebbe maggiormente concentrarsi.

Non per nulla, negli ambienti della ricerca politologica anglosassone di quel decennio si sosteneva che il ruolo dello Stato nella governance della politica economica era vitale e, per questo, i processi di internazionalizzazione dell’economia non facevano che rafforzare la centralità dello Stato-nazione.

Una centralità che derivava dalla forte capacità, nonostante tutto, di integrare, secondo l’abbondante ricerca di quegli anni, i poteri di governo (governing powers) e di controllarne il trasferimento al livello internazionale - come ad esempio all’Unione europea - così come al livello regionale e decentrato.

Infatti, anche di recente, la riflessione politologica europea ha ormai respinto l’idea dell’impotenza degli Stati nei confronti degli imperativi dell’economia internazionale, proprio perché ha mostrato che la presenza di un settore pubblico solido, di un apparato burocratico-amministrativo radicatosi nel tempo, in sostanza di uno Stato forte, abbia costituito, e costituisca, un vantaggio nell’economia globalizzata.

In ogni caso, la correlazione - messa in mostra in realtà ancora negli anni settanta - tra apertura economica e «dimensione» dei governi e dello Stato, si tiene ancora oggi, tanto che diversi studiosi parlano ancora di crescita del «Leviatano amministrativo»; allo stesso modo lo Stato sociale risulta ad uno stadio di riduzione, ma non di conclamato declino. Anzi, il settore dei servizi sociali appare ancora strategico e in grado di dare contenuto alla cittadinanza, di condizionare i progressi della coesione sociale; rimane in sostanza un pilastro dell’identità e dell’appartenenza.

Oltre a ciò, possiamo anche aggiungere che lo Stato costituzionale dei diritti sta acquistando caratteri strutturali europei e internazionali, nonostante, certo, allo stato attuale rimanga ancora un’«entità porosa, “arena” di policy-making frammentata e percorsa da forze che sottraggono poteri e competenze al governo centrale». Oggi, agli inizi della seconda decade del nuovo secolo, si sta assistendo quindi ad un cambio di paradigma; il dibattito volge verso l’affermazione di una tenuta complessiva, seppure faticosa, del sistema-Stato e quindi di un suo possibile passaggio ad un’organizzazione forse diversa, ma certo ancora ben solida, rispetto alle analisi dei decenni precedenti, tanto che di recente da più parti si è sostenuto che lo schema della crisi degli Stati nazionali sovrani e della cosiddetta cessione di sovranità è ormai debole e, al contrario, bisogna intravedere e riconoscere una rinnovata vitalità.

Anche se risulta plausibile che la sintesi moderna Stato, diritto e costituzione sia ormai incrinata, il tramonto della costruzione classica della sovranità non determina, nella situazione attuale, la frantumazione definitiva della forma-Stato, sebbene ne vengano messi alla prova i fondamenti. Si tende, cioè, ad utilizzare meno il concetto di declino irreversibile, più quello appunto di trasformazione, caro a Massimo Severo Giannini fin dagli anni Ottanta. In diversi casi, la crescita dello Stato è andata di pari passo con l’ascesa delle multinazionali e delle istituzioni multilaterali ed inoltre le reti globali sono ormai fortemente interconnesse con le strutture domestiche dello Stato nazionale; quindi, è, credo, preferibile, parlare di intreccio e rafforzamento strutturale e politico, piuttosto che di trasferimento del potere statale.

In questo senso, lo Stato tende a rimanere l’attore principale dello sviluppo economico e sociale, anziché autorità residuale nel mondo globalizzato. Su questo tema, forse, il nostro impegno di riflessione, anche a livello di incontri e seminari di partito, potrebbe essere proficuo ed importante. Nonostante tutto, però, sappiamo di essere sempre più indotti a pensare i singoli Stati solo all’interno dell’Europa che, a sua volta, però, non può pensarsi Unione - disciplinata dal diritto - se non percependo il ruolo dei singoli stati come suo fondamento. E la complessità attuale del contesto europeo, in cui si inseriscono le aspirazioni di «egemonia» di Germania e Francia, seppure da angolazioni diverse, è un riflesso della situazione descritta.

Non sappiamo se i processi evolutivi della globalizzazione conserveranno o ridurranno il ruolo dello Stato ad «unità elementare di un nuovo ordinamento globale», crediamo piuttosto che sia necessario il superamento del legame troppo forte e comodo con lo schema della crisi del sistema degli Stati nazionali, e confrontarsi con il paradigma della trasformazione, del mutamento, ma non nel senso di preludio alla scomparsa.

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